La mia terza maratona è stato un tal groviglio di sentimenti ed emozioni, che a raccontarla mi sembra quasi di farle un torto.
Innanzi tutto una confessione: questa volta avevo un obiettivo, abbattere anche solo di un secondo il muro delle quattro ore.
E poi uno spoiler: l’obiettivo non è stato centrato. Ma tagliare il traguardo è stata una emozione così grande che difficilmente avrei potuto essere più felice.
Ma andiamo con ordine.
Milano è la città che mi ospita da ormai 15 anni e dopo tanto tempo il rapporto di odio amore – l’ordine non è casuale – che si è instaurato fra di noi si è tramutato in una pacifica convivenza. Cerco di cogliere gli aspetti positivi che offre, tenendomi ben alla larga da quelli negativi.
Iscrivermi alla maratona di “casa” non è stata una decisione scontata, se ne dice peste e corna ed avendovi partecipato da staffettista per tre edizioni consecutive, purtroppo ero conscia che in molti casi le critiche sono fondate. Ma come resistere alla tentazione di correre vicino a casa, dormire nel mio letto la sera prima e soprattutto avere la mia famiglia che mi aspetta al traguardo? Impossibile.
Allo start – per una volta – ci sono arrivata con la consapevolezza di aver fatto tutto quello che c’era da fare, quando era da fare e senza sfighe collaterali.
Prima della partenza vedo tutti i miei compagni di squadra, siamo veramente tanti ed è bello. Sara Stella ed Heba sono alla loro prima maratona, condivido con loro la griglia di partenza e le emozioni, perché ogni maratona è un po’ come fosse la prima.
Io e Francesco, compagno di lunghi, partiamo in formazione compatta e nonostante la calca e la partenza in salita – nel senso letterale del termine – teniamo da subito un buon ritmo, troppo buono a dirla tutta. E facciamo tutte quelle cose che ti dicono di non fare: sorpassiamo chi va più lento, saliamo e scendiamo dai marciapiedi, facciamo gli allunghi per ricomporre la formazione dopo i ristori. In poche parole, sprechiamo un sacco di energie.
Però battiamo il 5 a un sacco di bambini e ci prendiamo tutto il tifo che incontriamo , perché in una città musona come Milano bisogna onorare anche chi fa il tifo.
Fra il 10° e l’ 11° km c’è il primo punto di cambio della staffetta, la strada è stretta e piena di gente, il tifo è sfegatato, c’è un ragazzo che ci segue per un pezzo urlando come un pazzo e poi si congeda “ops meglio che torno indietro che ho una staffetta da correre”.
Il ristoro del 20° km lo gestisce “il signore con il cane bianco” che incontro alle 7 del mattino ogni volta che mi alleno, punto diretta il suo tavolo e in risposta al mio “buongiorno” ottengo il suo tifo e di tutti quelli che stanno a distribuire le bottigliette d’acqua.
Al 22° km invece ci aspettano, capitanati da Barbara, alcuni compagni che non corrono, ma sono dei Grandi e sono venuti a incitarci e a farci il servizio fotografico. Sono ancora pimpantona e alzo le braccia per farmi fotografare.
A Trenno la fatica comincia a farsi sentire, io e Francesco ci dividiamo e proseguo da sola.
Al 31° km sono decisamente stanca e accaldata, per fortuna c’è un altro punto di cambio delle staffette e un runner – che corre per l’Abbraccio come me – mi accompagna per un pezzo e Ylenia – da cui vado a farmi abbracciare – mi dice di andare.
Fra il 34° km e il 35° km decido – senza possibilità di appello – che chi ha progettato il percorso è un sadico perché a questo punto un cavalcavia dopo un pezzo di strada in un cantiere polveroso è cattiveria: al ristoro corro incontro alla bottiglietta d’acqua come fossi in un deserto e non bevessi da una settimana.
Al 36° km ho le allucinazioni, corso Sempione l’hanno di certo modificato nottetempo, perché non me lo ricordavo così lungo. Per fortuna incontro un altro runner Abbraccio che mi fa coraggio.
Al parco Sempione otto (o comincio a vederci doppio?) bambini con le maglie del Milan mi battono il cinque in sequenza e uno mi dice “vola verso la vittoria” e inizio a commuovermi.
Allo Smeraldo sento qualcuno che dice “vai Ginevra” è una ragazza e sta parlando proprio con me, ma sono troppo stanca per capire chi è, spero di avere almeno sorriso, ma temo fosse un ghigno.
Arrivo ai bastioni di Porta Venezia e continuo a correre anche in salita perché so che in fondo ci sono Andrea e Yuri che mi aspettano. Inizia la discesa e comincio a scrutare le facce del pubblico… mi preoccupo perché non li vedo, ho paura di averli mancati. Invece no, a 100m dal traguardo sono lì sotto il sole ad aspettarmi. Yuri passa dalle spalle del papà alla corsia di arrivo, butto la spugna, lo prendo per mano e corriamo insieme fino al traguardo.
Non si sa chi sta tirando chi, ma quegli ultimi 100m valgono tutta la fatica dei 42 km precedenti.
La maratona più difficile , l’emozione più grande.