Questa volta parliamo di motivazione nello sport.
Quando si tratta di risultati sportivi, non bisogna dimenticare che, se l’atleta è il principale protagonista della prestazione sportiva, l’ambiente che lo circonda lo condiziona più o meno positivamente nel suo percorso di “costruzione” del risultato.
L’atleta, tramite una progressione di allenamento pianificata e programmata, come sostiene il Prof. Carlo Vittori nella sua “magistrale” definizione di allenamento sportivo, “stimola in modo crescente i processi fisiologici dell’organismo, provando a migliorare le sue capacità fisiche, psichiche, tecniche e tattiche, con la principale finalità di esaltarne e consolidarne il rendimento in gara”. In questo percorso, lungo faticoso e meticoloso, si inserisce il rapporto – a volte conflittuale – con l’allenatore.
La figura dell’allenatore è talvolta vista come quella della persona con fortissime pretese, che in modo inflessibile chiede all’atleta un lavoro sempre maggiore, magari senza la necessaria lucidità per capire se il proprio campione in quel periodo possa effettivamente sopportare il carico di lavoro proposto; con un atteggiamento di questo tipo, oltre a ottenere risultati pessimi dal punto di vista del rendimento, si rischia di trascurare dettagli importanti relativi alla situazione personale degli sportivi. Che possono, così, perdere la loro motivazione.
Gli allenatori sopra descritti, quasi sicuramente non possiedono le minime nozioni di “coaching”, e difficilmente sanno cosa sia il “COCOMI”.
La storia ci può insegnare qualcosa su motivazione e sport?
Certamente. Per capire di cosa stiamo parlando, occorre fare un piccolo salto a ritroso e andare nel secolo scorso per conoscere William Edwards Deming, un esperto di qualità inviato in Giappone dal generale MacArthur per collaborare alla ripresa del paese nipponico, che alla fine del secondo conflitto mondiale era devastato dalla guerra.Deming non si concentrò su particolari dettagli tecnici relativi alla produzione, ma puntò su un concetto innovativo per quel periodo storico, ossia sul potenziamento estremo della qualità.
Questi principi di totale controllo della qualità, poi messi in pratica dalla quasi totalità delle aziende giapponesi, si sono rivelati strategie vincenti: il Giappone, ripartendo dallo sfascio totale nel dopoguerra, è diventata una delle nazioni tecnologicamente più evolute e potenti al mondo.
Anche Anthony Robbins cita Deming, sottolineando il fatto che “insegnò che la qualità non è solo questione di soddisfare un certo standard, ma è piuttosto un processo vivo e palpitante di continuo miglioramento. Deming promise loro che, se avessero seguito fedelmente i suoi insegnamenti, nel giro di cinque anni avrebbero inondato il mondo con i loro prodotti di qualità e in dieci o vent’anni sarebbero diventati una delle maggiori potenze economiche del mondo.”
Anthony Robbins si riferisce spesso al continuo miglioramento, proponendo una parola che per molti (allenatori e non) è sconosciuta: il COCOMI, che vuole appunto dire COstante COntinuo MIglioramento.
Questo è un concetto che in molti allenatori e preparatori che si occupano di sport manca! C’è la tendenza a concentrarsi su quantità di lavoro, chilometri da percorrere, tempi da rispettare, tabelle di allenamento da studiare e modificare per proporle ai propri atleti. Tutte cose giuste. Ma se non si pone la dovuta attenzione alla qualità, se non si ha l’esatta percezione di cosa sia effettivamente equo chiedere ai propri atleti, si corre il rischio di vanificare gran parte del lavoro svolto, senza capacitarsi di fronte ad un eventuale insuccesso. Ed è facile che gli atleti perdano la motivazione.
Quant’è piccolo il mondo!
Allenatori di atleti di altissimo livello si sono posti la domanda: “cosa possiamo chiedere ad atleti “evoluti”, a dei “professionisti” che hanno già ottenuto tutto dallo sport (successi, notorietà e benessere economico ben oltre la media)?”. Questi allenatori hanno chiesto ai loro campioni di provare ad avere un Costante e Continuo Miglioramento, nel tempo hanno ottenuto molto di più rispetto agli allenatori che hanno ignorato questi principi e che si sono rivolti ai propri atleti con un atteggiamento autoritario e a volte punitivo.Lo sport è tante cose: caparbietà, lavoro, continuità, determinazione, tensione all’obiettivo, successo. Tante sono le affinità che l’attività sportiva ha con le strategie aziendali e viceversa.
L’importante è sapere sempre “dove ci troviamo” per rimanere contenti e motivati, e quale sia la strategia più vantaggiosa da mettere in pratica per realizzare il miglior risultato in quel determinato momento.
Deming, Anthony Robbins, e tanti altri autori contribuiscono a “segnare la via”, a raccontare come migliorare le nostre prestazioni, a patto che abbiamo l’umiltà di metterci in gioco e la serenità per auto-valutarci. Avere la giusta motivazione, anche nello sport, non vuol dire voler raggiungere obiettivi impossibili.
John R. Wooden, capo allenatore UCLA recentemente scomparso, ha elaborato la sua “piramide del successo” e l’ha condivisa con una definizione:”Successo è essere in pace con se stessi: è il risultato diretto dell’appagamento che deriva dal sapere che si è dato il meglio per raggiungere il traguardo più alto che ci si può porre.”
Molto interessante, questo rimando a Deming e al suo approccio che è alla base nella costruzione dei sistemi di gestione iso 9001. E si adatta perfettamente allo sport. La filosofia del ciclo di Deming, riassumibile anche nell’acronimo PDCA, e cioè Plan Do Check Act. Cioè pianifica l’allenamento (sia giornaliero che periodico), mettilo in atto, verifica (gara o periodo di gare), trova spunti di miglioramento e si ritorna alla fase plan.